“Era il tempo della semina delle fave e ci siamo incamminati verso le 5. Dell’arrivo della polizia nessuno sapeva niente. La raccomandazione che avevamo avuto dai dirigenti della Federterra era di accogliere i poliziotti, se fossero arrivati, con battimani e grida d’evviva. E così fu. Alla vista dei primi agenti ci radunammo al centro di Fragalà e battemmo le mani. Come risposta giunsero i primi candelotti lacrimogeni. Qualcuno di noi li rilanciò verso lo schieramento dei celerini, a quel punto scoppiò la tragedia. I poliziotti cominciarono a sparare con le pistole ed i mitra. Un vero e proprio inferno di piombo e di fuoco”.[1]
E’ Peppino Nigro, testimone oculare e fratello di una delle vittime dell’Eccidio di Melissa, il ventiquattrenne Francesco Nigro, a ricordare ciò che accadde quella mattina del 29 ottobre 1949: una data importante nelle lotte agrarie in Calabria e nell’intero Meridione italiano. A raccogliere la testimonianza di Peppino Nigro, a trent’anni dall’accaduto, Sergio Dragone, cronista de “Il Giornale della Calabria” che con un dettagliato reportage ha ricostruito quei tragici momenti che decretarono la fine del latifondismo alla vigilia di quella che sarebbe stata la “Riforma agraria” del 1950., Contemporaneamente ai “Fatti di Melissa” altre occupazioni di terre incolte s’erano registrate in altri 72 Comuni della provincia di Catanzaro ed in Sicilia, in Lucania, in Puglia e nel Lazio meridionale. Dalla fine della seconda guerra mondiale, lo scontro politico relativamente alla questione agraria era, ormai, altissimo. Per rendersene conto basta pensare alla strage di “Portella della Ginestra” quando Salvatore Giuliano ed i suoi gregari spararono contro i braccianti siciliani radunati nelle campagne palermitane. In quel primo maggio, del 1947, osserva lo storico Umberto Santino, migliaia di persone si erano ritrovate nel pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo.
“La festa – annota lo studioso - fu interrotta da una sparatoria che, secondo le fonti ufficiali, causò 11 morti e 27 feriti. Successivamente, per le ferite riportate, ci furono altri morti e il numero dei feriti varia da 33 a 65”. “Nella sentenza – aggiunge Umberto Santino - a proposito della ricerca della causale, si sostiene che Giuliano compiendo la strage e gli attentati successivi ha voluto combattere i Comunisti e si richiama la tesi degli avvocati difensori secondo cui la banda Giuliano aveva operato come "un plotone di polizia", supplendo in tal modo alla "carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia". Cioè: la violenza banditesca era stata impiegata come risorsa di una strategia politica volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava tra le righe che le "carenze dello Stato" erano da attribuire all'azione della coalizione antifascista allora al governo del Paese”. [2]
Le stesse occupazioni delle terre, secondo la docente dell’ Unical Amelia Paparazzo, avevano origini antiche e rappresentavano una delle poche proteste possibili nel Meridione italiano e, particolarmente, in Calabria.
“Erano una tradizionale forma di protesta attuata nella Regione. Era abitudine, infatti, delle popolazioni del versante cosentino e di quello jonico del Marchesato di Crotone invadere periodicamente, soprattutto nei mesi primaverili, le terre dell’ Altopiano per praticare determinate culture che avrebbero soddisfatto il fabbisogno familiare. Di queste periodiche forme di protesta e di rivendicazione, si ha notizia dal 1700 e nel 1800 quando, soprattutto dopo l’unificazione nazionale, centinaia di famiglie contadine si recarono nelle terre di latifondo chiedendone la distribuzione”.[3]
Capita però, come osserva lo storico Giuseppe Scilanga, che le occupazioni agrarie del secondo dopo guerra avevano una connotazione del tutto nuova rispetto al passato grazie alla graduale maturazione della classe sociale dei braccianti.
“Con queste lotte più mature ed organizzate – scrive, infatti, Scilinga – i contadini dimostravano di non essere più un disordine caotico di passioni e di barbarie come era avvenuto nei secoli trascorsi, ma elementi di ordine e di progresso; non più il contadino brigante, è invece il contadino moderno nella formazione della coscienza, avvenuta sul terreno delle lotte popolari e collettive, proiettato in un futuro di progresso ei di civiltà”. “Il fascismo stesso – osserva lo storico – aveva contribuito, con l’esaltazione della civiltà rurale, a dare nuova dignità al contadino, ma con il ritorno della democrazia quella dignità bucolica era diventata coscienza politica organizzata per costruire una nuova società in un mondo di libertà, di pace e di giustizia”. [4]
Dopo la fine della dittatura fascista, in Calabria e nel Meridione italiano i tumulti contro il latifondismo erano ripresi fin dal 1946. A causare la rivolta, anche la decisione del ministro all’Agricoltura on. Antonio Segni di ritirare i “Decreti Gullo”, approvati due anni prima che avevano provocato, per i contadini, una situazione positiva. Con questi decreti, infatti, si assicurava la continuità del lavoro, veniva ridotto lo sfruttamento dei possidenti terrieri e si promuoveva la nascita di alcune cooperative cui sarebbero state assegnate le terre incolte. Questa Riforma era stata redatta da un illustre parlamentare calabrese eletto nelle liste del Partito Comunista e più volte nominato ministro: l’avvocato catanzarese Fausto Gullo che, dopo essere stato partigiano e costituente, resse il ministero all’Agricoltura nel primo Governo d’unità nazionale retto da Badoglio e guidò lo stesso dicastero nei Governi Parri, Bonomi e De Gasperi. Nel 1946, era stato, appunto, Alcide De Gasperi a nominare Gullo Ministro di Grazia e Giustizia ed il ritiro dei “Decreti Gullo” era stato uno dei primi atti del nuovo Ministro all’agricoltura, Antonio Segni, docente universitario e latifondista sardo. Già da allora, l’esasperazione dei contadini era cresciuta a dismisura anche perché, per bloccare alcune occupazioni, dei latifondisti Latifondisti calabresi avevano ottenuto l’intervento della polizia.
“Il 23 febbraio del 1947 è indetta in provincia di Catanzaro – scrive Giovanni Ierardi – una “Giornata del Contadino”: si denunciano così i processi, gli arresti dei lavoratori e la condotta degli agrari che stracciavano i contratti senza tener conto delle leggi di proroga, e viene nello stesso tempo avanzata una serie avanzata una serie di rivendicazioni. Il 18 aprile e l’avanzata della Dc nelle elezioni sono gestiti dal blocco agrario calabrese come una vittoria personale e di classe. Da qui il contrattacco per riottenere le terre cedute negli anni passati, le commissioni per le terre dicono no alle domande presentate dalle operative e accolgono le richieste di revoca degli agrari. La nuova parola d’ordine dei contadini è “le vecchie concessioni di terre si difendono conquistandone di nuove”.[5]
Nel 1949, “si generò un tale clamore ed una tale tensione non solo nelle campagne, ma anche negli ambienti politici di Roma che il Governo fu costretto ad intraprendere un’azione per rendere più tollerabile la situazione. Il presidente del Consiglio on. Alcide De Gasperi – scrive Norman Kogan - ed il ministro all’Agricoltura on. Antonio Segni, proprietario terriero e docente universitario sardo, prepararono un progetto di legge per il frazionamento delle grandi proprietà terriere abbandonate. I grandi imprenditori agricoli – aggiunge Kogan – che impegnavano tecniche avanzate, furono esclusi dalla legge a prescindere dall’estensione delle loro proprietà. Nell’aprile 1949, l’on. De Gasperi propose la ridistribuzione di 37.000 ettari di terre incolte e la proposta di legge fu sottoposta ad una Commissione interministeriale. La Confragricoltura organizzazione dei grandi proprietari terrieri, esercitò però una tale pressione sui ministeri che il progetto fu insabbiato in Commissione”.[6]
Per quanto riguarda la Calabria, quello di Melissa, purtroppo, non fu l’unico momento di violenza. Se i cosiddetti “Fatti di Melissa” divennero celebri è perché fu proprio nella cittadina del Crotonese che si raggiunse il punto di non ritorno. Focalizzando l’attenzione solo nella Calabria mediana, furono numerosi gli avvenimenti in cui i contadini erano scesi in piazza per chiedere migliori pane e migliori condizioni di vita. A Petilia Policastro, cittadina del Marchesato crotonese, anche se con motivazioni apparentemente diverse ma sempre collegate alla povertà generalizzata, le proteste erano iniziate nell’autunno del 1946 raggiungendo il proprio, tragico, culmine nel 13 aprile 1947. Quel giorno, la gente era scesa in piazza a chiedere “pane e lavoro”. Agli spari dei carabinieri arrivati per sedare gli animi caddero uccisi la contadina Isabella Carvelli e lo spazzino Francesco Mascaro. Nella stessa cittadina, le proteste erano iniziate ancor prima dell’arrivo del Fascismo al potere. Parte del Municipio, per esempio, fu incendiata nel marzo del 1917 durante una protesta caratterizzata dal fatto che a ribellarsi in quell’ occasione furono prevalentemente delle donne.
“Il popolo era affamato – scrive mons. Domenico Sisca – scarseggiavano o mancavano addirittura le risorse private e, dopo tante proteste verbali, in una mattina del mese di marzo 1917, la folla formata per lo più da donne e da vecchi, salì la lunga scala del municipio e appiccò il fuoco”. “Erano bastati pochi Carabinieri per sedare la rivolta – aggiunge il sacerdote - e tutto sarebbe tornato alla normalità se le pavide autorità locali non avessero segnalato “il pericolo di una folla inferocita”, tanto da fare accorrere in pieno assetto di guerra una compagnia di soldati. Furono operati parecchi arresti e i creduti capi rioni tradotti alle carceri di Catanzaro, in attesa di giustizia che, però, non ebbe per la sopravvenuta amninistia generale”.[7]
Il 27 novembre dello stesso 1946, a Calabricata, sulla costa del medio Jonio calabrese, un campiere dell’agrario Pietro Mazza sparò sui contadini che avevano occupato alcune terre, uccidendo Giuditta Levato. Le cronache del tempo raccontano che, dal 17 settembre, alcuni contadini avevano occupato alcuni terreni incolti. A guidarli una giovane e coraggiosa mamma incinta da alcuni mesi. E’ Pasquale Poerio, mitico senatore comunista ed amata guida per i contadini calabresi, a ricordare a distanza di due anni in un proprio comizio i tragici momenti di quella giornata.
“Venne il 28 novembre e il grosso massaio Pietro Mazza, volle sfidare con la complicità di un ignobile servo, la buona volontà dei contadini di Calabricata. Nel tardo mattino si recava nel suo fondo, richiesto e contestato dalla lega, per seminarlo. Ne fu avvertita Giuditta che chiamò tutte le donne a raccolta, tutte le mamme contadine, tutte le spose dei combattenti: e andarono sul luogo per impedire al ricco massaio di seminare la terra contesa. L’offesa – ricordava Poerio - era grave per il massaio che vilmente con l’aiuto di un servo sparò su Giuditta la temibile avversaria che dava forza e coraggio ai contadini, a voi o compagni di Calabricata perché vi svincolasse dalla servitù. E la giovane sposa, che sarebbe stata per la terza volta mamma fra pochi mesi, fu ferita al ventre. Ma non si abbatté, sedette per terra, si vide la ferita, e alle altre mamme, alle altre spose ordinò che acciuffassero i vigliacchi, perché la lotta non era finita. Si, la lotta, o Giuditta, non è finita; anzi non è neppure incominciata, come tu giustamente mi dicevi sul letto di morte nell’Ospedale di Catanzaro”.
“Ricordo - aggiunge Poerio - le tue parole: “Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti. Ho tutto dato alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io sono partita per un lungo viaggio ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per vendicarmi”. [8]
Il 25 ottobre 1949 a Crotone 10.000 persone occuparono 6000 ettari, il 26, in analoghe situazioni, ci furono 40 arresti a Strongoli ed il 28 ad Isola Capo Rizzuto fu ucciso un anziano contadino, Matteo Aceto, fra i promotori del movimento d’occupazione. Questo, anche se per grosse linee, lo scenario in cui i cosiddetti “Fatti di Melissa” rappresentarono, nell’immaginario collettivo, una situazione ormai irrecuperabile. A Melissa, l’arrivo dell’esercito inviato dal ministro Mario Scelba era stato preceduto dall’occupazione del feudo di “Fragalà”: un ampio appezzamento allora incolto ed abbandonato da ben 14 anni che, durante il fascismo, era stato ampiamente sfruttato dai Polito e dai Berlingeri, ricche e nobili famiglie di Crotone. Quando la tragedia avvenne, l’occupazione delle terre andava avanti già da alcuni giorni.
“Il barone Giulio Berlingeri – scriveva su “L’Unità” del 28 ottobre 1949 l’inviato Luca Pavolini - ha 14 mila ettari nel Crotonese, il barone Alfonso Baracco ne ha 12.500, il barone Gallucci 6.000. Migliaia di ettari hanno il marchese Mottola, il barone Zurlo, il conte Gaetani, il principe di Cerenzia. I nobili hanno cintato questo immenso latifondo col filo spinato e hanno lasciato che ci crescano l’erba e le macchie. Ci mandano a pascolare gli animali e nella stagione buona ci vanno a caccia”. [9]
Oltre a Francesco Nigro, a Fragalà, rimasero a terra il quindicenne Giovanni Zito e la ventiquattrenne Angelina Mauro che, ricoverata all’Ospedale civile di Crotone, per le ferite riportate vi morì dopo alcuni giorni. Altri 15 contadini, invece, furono feriti in maniera più lieve.
A Sergio Dragone raccontava di Francesco Nigro, il padre Giovanni “aveva fatto la guerra ed era finito prigioniero prima in Germania e poi in Russia. Era tornato a Melissa per lavorare, ma qui trovò soltanto la fame. La miseria trionfava e fu questo a spingerci ad andare sulle terre, a coltivarle. Non è vero che le occupazioni sono state un fatto di partiti. Di mio figlio hanno detto che era del Msi. Non è vero, mio figlio era libero! Fu un movimento di popolo. C’erano tutti a Fragalà. I Comunisti, i Socialisti, i Democristiani e pure i Fascisti. Era la fame a spingere tutti. Anche nel 1922 si lottò per la terra e i carabinieri misero in piazza la mitragliatrice. Ma non si arrivò mai a quella ferocia”.
Un altro testimone oculare che raccontò quella giornata al cronista Dragone fu il pastore Antonio Durante che, dopo la sparatoria, fu precettato dalle forze dell’ordine che vollero essere accompagnate a Cirò Marina attraverso stradelle di campagna.
“Fui picchiato – raccontava – dai carabinieri perché non volevo accompagnarli. Mi ci portavano con la forza. Mentre camminavamo, mi rivolgevano parole ingiuriose nei confronti dei Melitesi: siete tutti delinquenti e cafoni mi dicevano”.
Poche le prese di posizione, da parte dei giornali nazionali contro l’accaduto. Voci fuori del coro furono “L’Avanti” diretto a quei tempi da Sandro Pertini che parlò di “omicidio premeditato” e “L’Unità” diretta da Pietro Ingrao che propose alla Federazione Nazionale della Stampa l’invio a Melissa di una delegazione di giornalisti di tutte le tendenze con lo scopo di fare luce sui fatti accaduti. Anche se tale proposta non ebbe seguito, la coscienza popolare si era ormai svegliata. Sulla stessa “L’Unità” in una delle uscite immediatamente successive ai “Fatti di Melissa” tuonò la penna provocatoria del sacerdote don Primo Mazzolari che accusando i parlamentari cattolici di poco coraggio.
“Hanno paura - scrive don Mazzolari - di ledere il diritto di proprietà, abbiano almeno il coraggio di colpire il lusso, l’inerzia e la stupidità criminale di chi fa una riserva di caccia laddove braccia senza lavoro e stomachi senza nutrimento hanno il sacrosanto diritto di lavorare e di mangiare”. “Dio mi guardi – aggiungeva lo stesso sacerdote – dal pensare che codesti intoccabili siano da annoverare tra i grandi elettori o tra i benefattori del convento. Non fanno onore ad un governo d’ispirazione cristiana se poi la polizia ha caricato una folla di poveri braccianti che hanno sofferto la fame, fame di pane e voglia di lavorare. Non si può difendere – aggiunge don Mazzolari – una proprietà affamatrice , sparando su chi ha niente e domanda di lavorare, prima vivere e poi possedere; prima l’uomo e poi il proprietario. E se il proprietario si mette contro l’uomo, si tuteli l’uomo, non il proprietario indegne, non la sua disumana proprietà”.[10]
Dopo l’eccidio, il latifondo di Fragalà fu diviso fra i contadini ed il 2 novembre 1949 rappresentò un’altra data storica poiché furono ritirati gli sfratti a coloro che in Calabria avevano occupato 5200 ettari; mentre il 15 dello stesso mese di novembre il Consiglio dei Ministri approvò una propria proposta di riforma agraria, nella consapevolezza che ormai i tempi erano maturi ed altri rinvii non sarebbero stati più accettati dalla popolazione. Nonostante l’avvio della Riforma, l’eccidio di Melissa fu seguito da almeno altri due nefasti avvenimenti che dimostrano come le .rivolte delle terre non furono un semplice avvenimento calabrese. A Montescaglioso, in provincia di Matera, era la notte del 14 dicembre 1949 quando l’operaio Giuseppe Novello fu ucciso da scarica di mitra sparata da un poliziotto motociclista, mentre decine di protagonisti delle lotte venivano arrestati. Anche in Basilicata, le lotte agrarie erano iniziate fin dal 1943 con proteste che interessarono entrambe le Provincie e che, il più delle volte, terminavano con la pacifica occupazione delle terre in cui veniva seminato.
“Il 10 dicembre – racconta Giovanna Parisi - sembra profilarsi un accordo, ma tutto precipita quanto un Ispettore dell'Agricoltura fa sapere ai rappresentanti dei lavoratori, appositamente nominati, che l'accordo poteva essere valido per il momento solo per il Comune di Irsina. Al diniego della delegazione si tentava un'altra riunione il 13 dicembre presso l'Ispettorato dell'Agricoltura con i rappresentanti dell'Associazione degli agricoltori i quali si dichiaravano disposti a cedere una minima parte di terreno mentre il resto poteva essere dato dopo un tempo lungo, per cui chiedevano di avere pazienza. L'apparente disponibilità doveva purtroppo nascondere la violenta repressione messa in atto il giorno dopo”.
“La notte del 14 partirono, infatti, da Matera cinque camion di carabinieri con l'intento di impedire il corteo che si stava formando e diretto ancora una volta sulle terre. Quando in mattinata si sparse la voce dei nostri arresti - racconta alla giornalista una testimone - una folla enorme, convinta che noi fossimo ancora nella caserma, si radunò sotto l'edificio gridando e tumultuando. Fu allora che Giuseppe Novello fu ferito a morte”[11].
In Puglia, lo scenario del nuovo scontro fu la “Capitanata”, porzione settentrionale del Tavoliere. Era il 23 marzo del 1950 quando l’occupazione delle terre arrivò a San Severo, cittadina del Foggiano conosciuta come “la Varsavia di Puglia”. All’arrivo dei celerini, altri spari sui contadini e le cronache parlano di un morto, centinaia di feriti, 180 arresti. Al sangue versato, si aggiunse la “piccola epopea” dei bambini come scrisse la giornalista Antonella Gaeta. Una sessantina di bambini figli dei carcerati furono affidati ad alcuni comitati di solidarietà, nati intorno al Partito Comunista, che subito sorsero in Toscana, in Emilia Romagna, nelle Marche.
“I sacerdoti – annota la cronista – diffusero la falsa notizia che li avrebbero portati in Russia e i piccoli destinati a Lugo di Romagna, a sentire quello strano dialetto ci credettero davvero. Formarono famiglie allargate, ancora adesso fratelli di due anni indimenticabili sono in contatto, si scrivono lettere e una volta all’anno si incontrano. Poi, nel 1952, il ritorno a casa, a riabituarsi a una quotidianità di fame e duro lavoro anche i più piccoli. Ma al fianco dei propri genitori, finalmente liberi”.[12]
Preceduta da queste rivolte, la Riforma agraria non produsse i risultati che sarebbe stato lecito aspettarsi. Anche se, per rendersene conto veramente, la Calabria ed il Meridione italiano ebbero bisogno di più lustri. Era il 21 ottobre del 1950 quando il Parlamento approvò la legge stralcio n°841, parzialmente finanziata dai fondi del “Piano Marshall”. Vero è che il latifondismo fu completamente sventrato dalla stessa riforma,, ma i piccoli appezzamenti che lo sostituirono furono delle piccole “isole” per l’incapacità della politica di guidare gli agricoltori verso quella cooperazione che in altre Regioni, come l’Emilia Romagna, rappresentano la forza portante dell’agricoltura. La stessa Cassa del Mezzogiorno, nonostante gli ingenti fondi pubblici che ebbe a disposizione non fu in grado di ideare veri programmi di sviluppi preferendo a questi i contributi a pioggia ed altrettanto fallimentare fu quella “Opera Sila” che, nata con le migliori aspettative, rappresentò l’ennesimo carrozzone pubblico. Fu questo, a ben vedere, l’inizio della fine per ogni sogno di sviluppo per l’agricoltura calabrese, come osserva lo scrittore Giulio Palange.
“C’era una volta la cultura contadina calabrese. E se qua e la’ ancora ne rimangono tracce, esse, sempre più rade e sempre più marginali rispetto ai modi di vivere, sono solo sopravvivenza d’un tetragno mondo le cui idealità storica culturale ormai, appartiene o meglio dovrebbe appartenere alla memoria collettiva”. “C’è pure oggi la civiltà contadina calabrese – aggiunge Palange – ed è quella nei musei, nelle biblioteche, negli archivi e che in fatto di riferimenti visivi, puramente evoca un campionario iconografico ormai codificato ed alla lunga diventato di maniera nel suo drammatizzante simbolismo, quasi che questa stessa civiltà, incatenata nella sua secolare tragedia, fosse comunque negata ad ogni sorriso, colore, superficialità anche formale”.[13] Francesco Rizza
[1] Sergio Dragone in “Il Giornale della Calabria” (29 ottobre 1979)..
[2] Umberto Santino “La strage di Portella della Ginestra” in Narcomafie", n. 6, giugno 2005.
[3] Amelia Paparazzo “Lotte contadine in Calabria (1943-1950)” Edizioni Lerici 1976.
[4] Giuseppe Scilanga “Le Due italie, Dalla Resistenza alla Repubblica”, Edizioni Giuseppe Laterza (Ba). Luglio 2010.
[5] Giovanni Ierardi in “Chi ha voce, la figura e l’opera di Raffaele Lombardi Satriani” edito nella collana “le ragioni dell’uomo” Gangemi editore, (Rc) ottobre 1985.
[6] Norman Kogan in “L’Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966”.(Laterza editori 1968).
[7] Domenico Sisca “Petilia Policastro”, editrice “Mit” Corigliano Calabro (Cs) 1964
[8] Il comizio integrale del senatore Poerio è riportato in “Rete per la Calabria” (https://perlacalabria.worpdess.com)
[10] Primo Mazzolari ne “L’Unità” del 13 novembre 1949.
[11] Giovanna Parisi in “Basilicata Regione” notizie, 1999.
[12] Antonella Gaeta “Un film di Piva sulle lotte del ’50. Cerco quei bimbi in fuga in treno” nelle pagine pugliesi della “La Repubblica” del 25 marzo 2004
[13] Giulio Palange “la memoria e gli altri” in AA.VV. “Campagne e Contadini fra Otto e Novecento”. Editoriale “Il Busento”, Cosenza, 1993